L’Odontoiatria che verrà
dott.Renato mele
Premessa
Alcune importanti decisioni legislative che riguardano la professione odontoiatrica sono state prese così a ridosso delle ferie estive da passare quasi inosservate, non lasciandoci il tempo e lo spazio per analizzarle e commentarle. Meno che mai per prendere le posizioni conseguenti. Con questo scritto mi rivolgo ai colleghi, nella speranza che trovino il tempo e la curiosità di leggerlo, anche senza necessariamente condividerlo. Questo mese ormai trascorso nel silenzio, se da una parte ci permette di fare un’analisi più distaccata e ponderata, dall’altra potrebbe portarci ad un pericoloso atteggiamento di rassegnazione. E questo non deve succedere.
Il mio attuale ruolo di Vice Presidente ANDI Toscana, oltre che di rappresentante toscano della Consulta ENPAM della libera professione, mi mette certamente in una posizione di responsabilità verso i colleghi che rappresento anche quando esprimo opinioni, come in questo caso, ma ancora di più sento di dover raccontare loro con franchezza quello che sta succedendo intorno a noi. E’ quello che cerco anche in questo caso di fare.
L’Odontoiatria che verrà
A quanto pare lo Stato invadente e vorace, dopo commercianti, artigiani e parte della professione sanitaria, oggi, forte di motivazioni deboli, colpisce anche la libera professione odontoiatrica, tentando di ridimensionarla, se non proprio eliminarla. Sbagliamo però se continuiamo a vedere la realtà odierna solo con gli occhi dei dentisti. Questo comportamento ci è servito negli anni per ottenere visibilità e rappresentatività (spesso di facciata, e sempre per i soliti noti), ma ci ha distolti dal vero problema: la difficoltà di esercitare la libera professione, e più in generale l’impresa privata, qualunque essa sia, in uno Stato che è diventato un problema, invece che una soluzione.
Evidentemente non è bastato mungere per anni l’impresa privata; oggi deve sparire, a vantaggio del grande capitale e di un presunto e tutto da dimostrare vantaggio economico per i cittadini.
Aveva ragione Churchill quando sosteneva che “…molte persone vedono l’impresa privata come una tigre feroce, da uccidere subito. Altre, invece, come una mucca da mungere. Pochissime la vedono com’è in realtà: un robusto cavallo che, in silenzio, traina un pesante carro…”
Con le nuove norme sulle Società in Odontoiatria, anche questa professione potrà definitivamente essere organizzata in forme complesse, in verità ormai da tempo utilizzate in tante branche della medicina, da quelle diagnostiche a quelle terapeutiche, passando da quelle riabilitative. E così si chiude per noi un lungo periodo di equivoci e sotterfugi, perché questa formula esisteva già nella nostra professione, seppure in forme isolate e sottaciute.
A nulla serve oggi dire che la nostra professione è “diversa”. A nulla servono i distinguo sulla fatturazione e sull’esenzione o meno dell’IVA: sono problemi già affrontati e risolti dagli Enti statali preposti per tutte le già esistenti Società in campo sanitario. A nulla serve riportare il “parere” ministeriale sulle Società: un parere ministeriale non aveva alcuna valenza prima, figuriamoci adesso, con la nuova legge! A nulla serve, addirittura, portare argomenti più solidi, come il particolare ruolo che la Costituzione affida alle professioni protette e che, in questo modo, verrebbe scavalcato.
Se, invece che continuare a farci inutili selfie, ci guardassimo intorno, potremmo facilmente osservare che, con le nuove norme, il capitale entrerà in maniera discreta nell’attività forense, in maniera pesante nella nostra attività ed in quella delle farmacie. Evidentemente la sanità viene ritenuta la più certa fonte di guadagno del futuro e questo guadagno non dovrà essere distribuito tra tanti piccoli professionisti, che però non gravano sulle spalle dello Stato. Da oggi essi potranno essere solo gli esecutori materiali di prestazioni al cui solo ipotetico basso prezzo contribuiranno con una misera retribuzione e con totale assenza di tutele sociali. Dopotutto sono o non sono “liberi professionisti”? Che ci pensino da soli!
Chi possiamo presumere si gioverà effettivamente di queste regole? Nel caso delle farmacie non è difficile ipotizzare che si tratterà dei grossi depositi farmaceutici, che potranno imporre alle farmacie, diventate di loro proprietà, di acquistare solo e soltanto i propri prodotti. Nel nostro campo saranno i grossi depositi dentali e le ditte produttrici, o addirittura i grandi laboratori, tutti con il preciso obiettivo di crearsi canali privilegiati o esclusivi per le loro attività?
L’ingresso di questi e di altri capitali renderà effettivamente più efficiente e più economico il sistema, al di là dei problemi deontologici che solleviamo ma che non interessano a nessuno, forse neanche agli Ordini, spesso distratti da altre faccende? Ne possiamo ragionevolmente dubitare, perché l’unico costo che verrà abbattuto sarà quello del “fattore umano”, cioè noi. E così si ridurrà drasticamente una generazione di professionisti e con essi un intero indotto occupazionale, con i suoi positivi risvolti economici e previdenziali. L’introduzione di uno o più soci di capitale creerà un ulteriore anello della catena che, ovviamente, vorrà trarci il suo legittimo guadagno. Risultato: il costo finale sarà più o meno identico. La qualità non so.
Analizzando le regole della legge in oggetto, non si può non notare che vi compaiono due nuovi precisi obblighi: le comunicazioni al cliente dei dati dell’assicurazione professionale e del preventivo scritto. Orbene, questi due nuovi obblighi, se ragionevoli per le realtà operative commerciali, in quanto il rapporto con il cliente era decisamente troppo “asimmetrico” a loro vantaggio, lo sono meno o punto per noi e ci creeranno più problemi di quanti ne risolveranno ai nostri pazienti. Ne avevano costoro davvero bisogno? Il libero professionista è già di per sé garante “qualificato” del proprio operato e queste nuove regole lo costringeranno, ancora una volta, in gabbie comportamentali costruite per altri.
Cosa si può rimproverare ai nostri rappresentanti? Se guardiamo gli ultimi avvenimenti si sarebbe tentati di dire che poco o nulla si poteva fare, vista la protervia governativa e gli interessi commerciali in gioco, ma se ci guardiamo indietro osserviamo che gli errori sono stati fatti in passato, quando abbiamo facilitato i pesanti tentativi di inquadramento statale, vedi autorizzazione sanitaria, addirittura ostacolando le iniziative difensive di alcuni coraggiosi colleghi fatti passare per visionari o peggio ancora nemici della professione. Risultato: studi monoprofessionali e Strutture sono stati equiparati ed omologati, e le pesanti regole delle seconde sono state trasferite pari pari ai primi, rinunciando ai vantaggi di quella autonomia operativa che doveva continuare a differenziarci e ad avvantaggiarci rispetto alle attività esercitate in forme complesse. Su queste, e solo su queste, si sarebbe così potuta abbattere la voracità della macchina burocratica statale, aumentandone obblighi, responsabilità e costi operativi. E, dopotutto, giustamente, a motivo di una proprietà anonima non soggetta a controllo ordinistico, anche se questo si mostra talvolta alquanto deficitario.
I colleghi che hanno questa responsabilità storica, a ben guardare, sono gli stessi di oggi, ed anche nelle ultime occasioni in cui il nostro rapporto con la Pubblica Amministrazione poteva essere perlomeno semplificato (vedi Gruppo di lavoro ministeriale sull’autorizzazione sanitaria), non si sono certo dimostrati all’altezza della situazione, ed addirittura piuttosto restii a darcene una spiegazione. Neanche tanti anni dei nostri disagi e le tante sentenze favorevoli hanno loro chiarito che gli studi monoprofessionali non hanno bisogno di alcuna autorizzazione, se non in casi eccezionali, e che su questo bisognava adoperarsi.
Ma, come diceva ancora Churchill: “Il problema dei nostri tempi consiste nel fatto che gli uomini non vogliono essere utili ma importanti.”
Oltre ad una pesante sottovalutazione del controllo autorizzativo, le cui nefaste conseguenze continuano a manifestarsi (vedi Lazio e Toscana, ma anche Emilia Romagna e chissà quante altre), tutte affrontate nella completa indifferenza dei nostri vertici, oggi si può loro rimproverare una parziale e lacunosa lettura della stessa “questione Società”.
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Dal punto di vista occupazionale, le cosiddette “Catene Dentali” iniziano ad essere l’unica possibilità di lavoro per molti giovani colleghi, in virtù di una pletora ormai evidente e della necessità di investimenti iniziali insostenibili e difficilmente ammortizzabili. Alle tante questioni di principio che qualcuno oggi sbandiera questi giovani colleghi non preferiranno forse un’occupazione, seppure sottopagata?
In passato non era così, e forse anche per questo la professione odontoiatrica ha potuto per lungo tempo fare a meno di agganciarsi a strutture private e pubbliche, a differenza di altre attività mediche e chirurgiche. Ad un’attività così autonoma e parcellizzata ha giovato anche la bassa, se non addirittura assente, rischiosità operativa che oggi, senza alcuna giustificazione scientifica, ci viene negata, sempre e solo per motivi commerciali … di qualcun altro.
Dal punto di vista ordinistico andrebbero seguite le dinamiche deontologiche dei comportamenti professionali, in presenza di un datore di lavoro diverso da sé stessi. Lo stesso Direttore sanitario potrebbe essere la longa manus della proprietà, piuttosto che un garante della professione. Più che quello deontologico, il vero codice che ci ha guidati in questi anni è stato quello della nostra coscienza professionale che è non certo inferiore, anzi, a quello dei colleghi di altre discipline. Ma, di fronte al bisogno?
Dal punto di vista associativo mi sembra pericoloso demonizzare le formule societarie, utilizzate già da tempo anche da realtà operative di piccole e medie dimensioni: i nuovi colleghi non ci seguirebbero, visto che, dopotutto, ci lavorano. Un errore simile è stato già fatto con le “convenzioni”.
Oggi il fenomeno “convenzioni”, che temevamo quasi in maniera isterica è stato assorbito e, bene o male, ci conviviamo. Ma in passato ci sono stati validi colleghi esclusi dalla vita associativa perché avevano aderito a convenzioni che per loro sarebbero risultate in alcuni casi l’unica fonte di attività. Tra il lavoro che glielo chiedeva e l’Associazione che glielo vietava hanno scelto, ovviamente, il primo. Oggi sembrano pionieri e non più traditori della professione.
Ma anche con i Soci “anziani” si rischia: prima o poi si accorgeranno che la formula societaria, al di là di ulteriori vantaggi da valutare caso per caso, risulta essere la più vantaggiosa in caso di cessione dell’attività. E allora, se esiste per i nostri antagonisti economici, perché non usarla anche noi? Perché non aiutarci a valutare e semmai scegliere, soprattutto per chi si avvicina alla conclusione della propria attività? Anche in questo caso i colleghi che già la usano sono pionieri o nemici della professione?
Dal punto di vista previdenziale il fenomeno rischia di essere devastante. Anche senza le formule societarie, la contribuzione previdenziale delle nuove generazioni sarà per ovvii motivi ridotta. A poco serviranno l’innalzamento dell’età pensionabile ed una progressiva crescita dell’aliquota di versamento. Anzi, il percorso lavorativo di questi colleghi sarà ancora più difficile ed avaro di soddisfazioni. Avranno la più alta percentuale di prelievo previdenziale tra tutti i liberi professionisti italiani ed una delle pensioni più basse. Per buona misura con le Società parte dell’utile, andando a soggetti non iscritti all’Ordine, non sarà versato nelle casse del nostro Ente previdenziale. Al di là di dichiarazioni di facciata e di soluzioni improvvisate, l’unica proposta seria e strutturale era quella del contributo integrativo (da sempre in uso tra tutti gli altri liberi professionisti italiani) che avrebbe implementato a costo zero la contribuzione previdenziale soprattutto delle giovani generazioni ma anche sostenuto la prossima spesa, quella delle nostre pensioni. Bocciata dieci anni fa e ripresentata in Consulta quest’anno, è stata nuovamente accantonata. Credo che alla base di questa decisione ci siano enormi pregiudizi (con i quali purtroppo non funziona nessun appello al buonsenso) ed un eterno clima preelettorale che è diventato soffocante e che pretende solo e soltanto di “stare fermi”, quand’anche il fare significherebbe fare bene. Dopotutto, quello che per noi negli anni sembra cambiato è servito soltanto, come ben rappresentato dal grande scrittore siciliano Tomasi da Lampedusa, a non cambiare nulla al nostro interno. Ma, intanto, intorno a noi tutto cambia.
Non so se e quanto possiamo oggi contrastare o, come minimo, ridurre gli effetti negativi di queste scelte, ma dobbiamo provarci, magari con altri sistemi e con altre persone, cominciando dal pretendere che ci vengano riconosciute quelle peculiarità che ancora oggi la legge ci concede e a cui sistematicamente, e per incomprensibili motivi, rinunciamo. E non più accettando ulteriori tentativi di appesantirci con obblighi pensati e nati per soggetti diversi da noi.
Per concludere, credo che per il malato grave della libera professione odontoiatrica la nuova legge abbia comunque preparato una bella lapide commemorativa, con la previsione dell’obbligo di un Direttore sanitario iscritto all’Albo degli Odontoiatri in tutte quelle Società ove si pratica l’odontoiatria. A questo punto di cosa potremo più lamentarci? Si conclude infatti con questa concessione il faticoso percorso di riconoscimento della nostra specificità, su cui sono state costruite alcune prestigiose carriere.
Dottor Renato Mele
Vice Presidente ANDI Toscana
Rappresentante toscano nella Consulta ENPAM della libera professione